“L’accordo di Parigi permette ad ogni delegazione di ritornare al proprio paese a testa alta. Il nostro impegno collettivo vale di più della somma di quelli singoli. La nostra responsabilità verso la storia è immensa.” Queste le parole di Laurent Fabius ministro degli esteri francese e, per l’occasione, presidente della COP 21 (Conferenza sui cambiamenti climatici di Parigi).
Le frasi citate costituiscono un’efficace sintesi della conferenza ONU che è stata per qualche giorno al centro dell’attenzione mondiale. L’immagine dei capi di stato uniti mano nella mano, braccia alzate, a formare una catena umana davanti alla platea plaudente è passata su tutti i media così come i commenti soddisfatti di ognuno di loro. C’è chi lo definisce un accordo storico, chi, più modestamente, il migliore possibile. Pur con diverse sfumature tutti i vertici di stato hanno espresso una valutazione positiva.
La consapevolezza che qualcosa si stia modificando a livello climatico è ormai diffusa non solo tra gli addetti che analizzano i dati scientifici ma anche tra coloro che delegano ai rappresentanti istituzionali la soluzione dei problemi del vivere quotidiano.
Per questo nessun governante voleva rimanere fuori dall’inquadratura festante “dell’accordo mediatico”. Le aspettative dell’opinione pubblica non potevano essere deluse …. un fattore che ha certamente pesato sull’allineamento di ben 195 nazioni. A tutti è chiaro che il “problema clima”, con gli eventi atmosferici che di volta in volta lo caratterizzano, ha dimensioni globali ed è altrettanto indubitabile che le scelte di questi decenni influenzaranno la “storia” futura.
Per non essere troppo influenzata dall’istintiva diffidenza che nutro verso tutto ciò che proviene da strutture di potere, ho letto riga per riga il testo originale dell’accordo. Delle trenta pagine che compongono il documento solo dodici sono occupate dai 29 articoli che definiscono aspettative ed impegni dei convenuti. La sensazione complessiva che si ricava è quella di un documento “dei buoni propositi” che rimane su linee molto generali senza mai sbilanciarsi nell’individuazione di azioni concrete; le scadenze sono diluite in tempi lunghi (qualcuno potrebbe obiettare che ciò sia normale, trattandosi di clima, ed avrebbe ragione se non fosse che sono trascorsi più di venti anni da quando nelle sedi ufficiali sono iniziati gli incontri internazionali).
Sia chiaro, la sottoscrizione da parte dei singoli stati sarà possibile (art.20) a partire dal 22 aprile 2016, con la cerimonia ufficiale nella sede di New York, e rimarrà aperta fino al 21 aprile del 2017. Dunque, pare non ci sia fretta!
Il percorso, come è stato per il protocollo di Kyoto, è ancora lungo. Il periodo a cui si riferiscono gli accordi parte dall’anno 2020. Sino ad allora saranno ancora operativi i patti che estendono il protocollo stipulato nella città giapponese nel 1997 che, nella conferenza di Doha (2012), è stato esteso, appunto, dal 2013 al 2020. L’emendamento di Doha è, ad oggi, stato ratificato da 59 paesi; per entrare in vigore dovrebbero essere 144 …. come al solito la determinazione non manca!!
Se poi volessimo individuare la data dell’effettiva entrata in vigore di quanto deciso a Parigi dovremmo sottolineare che questa si avrà 30 giorni dopo la ratifica di almeno 55 paesi tra partecipanti alla conferenza che risultino responsabili di una quota pari o superiore al 55%, delle emissioni totali di gas- serra (art.21).
Scorrendo gli articoli, alla ricerca di qualche aspetto significativo, è nel secondo che si fa espresso riferimento alla volontà di rafforzare la risposta globale verso la minaccia del cambiamento climatico, in un contesto di sviluppo sostenibile rimanendo, nel contempo, impegnati nell’eradicamento della povertà.
Belle parole… ma chi ci crede?
Per questo scopo, l’aumento della temperatura media rispetto ai valori del periodo preindustriale deve essere limitato entro i 2 °C pur volendo perseguire l’obiettivo di 1,5 °C. Sarebbero questi i valori entro cui frenare “il riscaldamento” affinché lo sviluppo della capacità di adattamento e la diminuzione dell’emissione dei gas – serra impediscano un impatto negativo sulla produzione delle derrate alimentari.
Nel medesimo articolo si evidenzia anche la necessità di garantire flussi finanziari costanti per ridurre le emissioni in un’ottica di equità, secondo il principio della responsabilità comune ma differenziata alla luce delle diverse condizioni nazionali (un riconoscimento del fatto che le nazioni industrialmente sviluppate hanno determinato per un intero secolo l’aumento della concentrazione del diossido di carbonio CO2).
In questo contesto il picco delle emissioni dovrebbe essere raggiunto il prima possibile in una prospettiva di mitigazione degli effetti clima-alteranti. Ogni parte dovrà dichiarare i propri INDC (intended nationally determined contributions = contributi prefissati determinati a livello nazionale). Naturalmente per molti passaggi del testo è necessario rifarsi alle decisioni delle COP precedenti, ad esempio gli INDC sono frutto di una decisione della COP 19 (Varsavia 2013). Da sottolineare che, dopo due anni, tali contributi devono ancora essere dichiarati da molti paesi. Dal 2020, ogni 5 anni, dovranno essere aggiornate e communicate ufficialmente le proprie INDC. A questo proposito, nella prima metà del 2016, dovrà essere adottato un pubblico registro su cui formalizzare ed archiviare gli impegni assunti.
Entro il 2020 le parti dovranno anche comunicare quali saranno le strategie per la riduzione delle emissioni dei gas – serra nel medio (2050) e nel lungo periodo (fine secolo).
Proprio nella seconda metà del secolo si dovrebbe raggiungere un equilibrio quantitativo tra gas emessi e gas riassorbiti; sempre in base al principio del differenziamento delle responsabilità comuni, i paesi sviluppati dovranno mantenere un’azione preminente nella riduzione delle emissioni, mentre per I paesi in via di sviluppo si terrà conto delle diverse circostanze in cui si trovano pur supportandoli verso obiettivi di controllo e limitazione sempre più ambiziosi.
Nell’art. 5 si trova un breve riferimento all’importanza delle foreste come carbon sink (sequestratori di carbonio). Questo breve richiamo al problema della deforestazione e della degradazione degli ambienti forestali mi pare del tutto inadeguato. Sarà ancora possibile (art.6) usufruire, attraverso apposito meccanismo di compensazione, di quote derivanti dalla riduzione delle emissioni di una nazione per “sanare” l’eccesso d’inquinanti rilasciati da un altra. Nello stesso articolo si auspica la partecipazione di enti pubblici e privati nella definizione e raggiungimento degli INDC, così come si ipotizzano possibili contributi derivanti da “strategie non legate al mercato” per supportare processi di sviluppo sostenibile. Bisogna sottolineare che quanto si legge nel testo è caratterizzato da un alone di vaghezza che potrebbe dissiparsi nel corso delle prossime riunioni dei gruppi di lavoro, ad hoc, sui singoli temi ma, ad ora, i punti di domanda lasciati in sospeso sono molti.
L’uso del condizionale ritorna nell’art.7 che si riferisce alle prospettive di adattamento cioè a quelle pratiche utili a fronteggiare le conseguenze del cambiamento climatico in atto. In particolare si rimanda a quanto deciso alla conferenza di Cancun in merito alle azioni definite nell’Adaptation Framework. In questo caso si evidenzia l’attenzione da porre nei confronti di quelle popolazioni e/o ecosistemi maggiormente esposti agli effetti negativi dei cambiamenti climatici.
L’art. 8 si occupa dei danni e delle perdite economiche conseguenti. Basandosi sui meccanismi definiti in “The Warsaw International Mechanism for Loss and Damage”, vengono elencate azioni di supporto come: l’attivazione di un sistema di preavviso, l’organizzazione del pronto intervento nell’emergenza, la gestione del rischio, le soluzioni assicurative, la capacità di risposta delle popolazioni e degli ecosistemi. Utile ricordare che ci sono intere isole e città costiere minacciate dall’innalzamento del livello dei mari, così come intere regioni esposte alle conseguenze di fenomeni meteo estremi.
Nell’art. 9 si entra nell’ambito finanziario “Financial Mechanism” da cui si evince che i paesi sviluppati devono procurare le risorse finanziarie per sostenere le nazioni meno sviluppate; a tal fine sarà richiesta, con scadenza biennale, un’informativa relativa alle risorse disponibili. Prima del 2025 dovrà essere definito un fondo, quantificato in 100 miliardi di dollari l’anno, per le necessità prioritarie dei paesi in via di sviluppo (per la verità questa ipotesi era già stata votata “Green Climate Fund” alla confererenza di Cancun COP 16 - 2010).
L’art.10 è relativo allo sviluppo tecnologico “Technology Mechanism “ con la doppia funzione di migliorare la risposta al cambiamento climatico (adattamento) e/o diminuire le emissioni di gas – serra (mitigazione). Anche in questo caso si ribadisce che lo sviluppo delle tecnologie va sostenuto così come devono essere trasferite le relative conoscenze verso i paesi economicamente svantaggiati. Possiamo saltare direttamente all’art.15 in cui si accenna alla costituzione di un comitato di esperti con la funzione di “supervisionare” la realizzazione degli accordi senza originare contrapposizioni tra le parti, senza fini punitivi ma ponendo l’attenzione sulle capacità e sulle situazioni delle singole parti. Si susseguono, poi, gli articoli dai contenuti prettamente burocratici con cui si conclude il documento.
Come sempre i risultati dovranno essere valutati nella concretezza dei fatti, ma in base alle parole scritte a Parigi chi si aspettava una svolta epocale sarà deluso.
Per terminare, registro le dichiarazioni di una rappresentante del mondo del business statunitense secondo la quale per gli investitori ci saranno ghiotte opportunità: riallocare risorse per sviluppare ed adottare tecnologie più pulite ed efficienti nel processo di “decarbonizzazione” corrisponde ad un giro di 3mila miliardi di dollari per i prossimi cinque anni…. qualcuno che non è rimasto deluso, forse, c’è.
MarTa